Il recupero funzionale dell'anziano non autosufficiente
L'intervento è comunemente finalizzato al totale recupero della perduta o ridotta autonomia funzionale dell'invalido e, qualora ciò non sia possibile a rendergli accettabile l'emarginazione. Pur essendo convinti assertori dell'esigenza che gli operatori della riabilitazione debbano avere una formazioneprofessionale ineccepibile, continuamente aggiornata, riteniamo che il loro intervento non debba limitarsi esclusivamente all'esecuzione di manovre meccaniche, ma andare ben oltre.
Un diverso intervento riabilitativo, tecnicamente e politicamente corretto, deve mirare al maggior recupero possibile delle funzioni perdute ed alla valorizzazione di quelle residue, e contemporaneamente all'adattamento dell'habitat e dei vari momenti della vita di relazione dell'anziano con il suo entourage a tali possibilità funzionali, tenendo presente che queste sono suscettibili sia di miglioramenti ma più spesso di peggioramenti.
Questo intervento deve mirare alla risocializzazione dell'invalido, resa possibile dalla collaborazione concreta tra operatori, paziente, suoi parenti ed amici, e realizzata nel territorio, limitando al minimo indispensabile l'intervento residenziale.
Ma l'esatto ruolo del recupero funzionale dell'anziano non autosufficiente, intervento tra il sociale ed il sanitario, potrà essere pienamente evidenziato solo se lo si collocherà nel più vasto campo interdisciplinare del trattamento dell'anziano.
Le tecniche riabilitative.
Abbiamo accennato all'esistenza di svariate scuole di medicina riabilitativa, che hanno elaborato loro metodi originali per il recupero funzionale dei motulesi o che hanno adattato o modificato alle esigenze particolari delle loro utenze quelli esistenti. La nascita di queste scuole e la messa a punto o l'adattamento di queste metodiche riabilitative, a cui ha fatto seguito il proliferare in ogni dove di centri per il recupero funzionale, non è stato un fatto casuale né tanto meno la conseguenza di una spontanea evoluzione scientifica, bensì la conseguenza della spinta di un poderoso movimento di opinione.
Enormi masse di cittadini «con potere contrattuale», cioè che producono e che consumano, hanno imposto ad amministratori e politici di prevedere nei loro programmi, prioritariamente e concretamente, la promozione di questi tipi di interventi.
Se è pur vero che spesso questi interventi sono stati tecnicamente inadeguati ed emarginanti, è anche vero che quelli validi sono in continua espansione e l'opinione pubblica è culturalmente orientata in quella direzione.
Anche nel settore del recupero funzionale degli anziani non autosufficienti, si trova una conferma a quanto abbiamo detto in altri lavori: chi non produce e/o non consuma, viene emarginato e ciò avviene in misura tanto maggiore quanto minore è la sua possibilità diretta o indiretta di imporre delle scelte a chi detiene il potere. I servizi di riabilitazione sono sorti per soddisfare la richiesta di recupero funzionale deali invalidi di guerra, degli infortunati civili o da cause di lavoro, dei poliomelitici, dei cerebropatici infantili ecc.: tutta gente che poteva contare sulla concreta solidarietà dell'opinione pubblica, dei sindacati e dei parenti in particolare.
Ben diverso è il destino riabilitativo dell'anziano non autosufficiente: un individuo che ha perso ogni ruolo sociale, spesso privato del diritto alla salute e ad una vita economicamente e socialmente decorosa, senza potere contrattuale, i cui diritti sono male tutelati dalla «famiglia giovane», occupata a difendere i suoi propri diritti e ad uscire dalla crisi esistenziale in cui si dibatte. In questa situazione la non autosufficienza diviene spesso un alibi che la società (consciamente) ed i parenti (inconsciamente) adducono per escludere i vecchi. I figli lo accompagnano in cronicari-parcheggio eufemisticamente definiti «reparti di lungadegenza riabilitativa», ripromettendosi di farli rimanere il tempo minimo indispensabile alla loro riabilitazione, al recupero di una almeno parziale autosufficienza.
Trapiantato in queste realtà, allontanato dall'ambiente familiare, costretto a modificare le sue abitudini e a rinunciare alla sua «pricacy», per adattarsi ad un modello di vita funzionale non alle sue esigenze ma a quelle dell'istituzione totale, l'anziano va incontro ad un continuo regresso psico-fisico, che da solo basterebbe a compromettere irrimediabilmente ogni possibilità di recupero. Se poi a questi elementi si aggiunge l'assenza completa o la mistificazione dell'intervento riabilitativo, allora il quadro è completo e non è difficile immaginare quale sarà il destino del ricoverato. Altrove abbiamo ampiamente e chiaramente trattato del ruolo più corretto che deve svolgere la geriatria e ciò ci consente ora, senza ulteriori preamboli, di parlare della riabilitazione geriatrica senza tema di essere tacciati di riproporre interventi settoriali o inutili specializzazioni, funzionali esclusivamente agli interessi dei tecnici.
La riabilitazione geriatrica non deve essere altro che una normale riabilitazione motoria, attuata nelle sedi obiettivamente più funzionali alle esigenze dell'utente anziano, eseguita da normalissimi tecnici e fisiatri che, nella pratica quotidiana e durante i corsi di aggiornamento periodici, abbiano approfondito le modalità più adeguate al trattamento di questo tipo di utenza.
Mentre la medicina geriatrica, nata come «medicina di serie B», per sistemare primari, è riuscita pur con i suoi limiti, in presenza di condizioni favorevoli, a creare una sua scuola ed un suo positivo movimento culturale; la riabilitazione funzionale geriatrica, nata anch'essa come «riabilitazione di serie B», o addirittura come mistificazione dell'intervento ed alibi per liberarsi degli anziani, è rimasta tale senza riuscire a produrre nulla di originale. Essa viene quasi semprepraticata da fisiatri e tecnici improvvisati, la buona volontà dei quali non è sufficiente a sopperire alla carenza di una seria preparazione professionale. Altre volte invece, la praticano operatori che non avevano trovato una loro collocazione in «settori più gratificanti». In questo caso le cose non andranno meglio; dimenticheranno progressivamente e sempre più ogni nozione professionale ed in capo ad un tempo più o meno lungo, limiteranno ad un ripetitivo lavoro di routine il loro intervento che non sarà personalizzato, uguale per tutti i pazienti indipendentemente dalla loro patologia: esercizi di deambulazione tra le parallele, alle pulegge, alle scale, alla sedia e tutta una serie di stupidi esercizi di ginnastica segmentaria; tutte cose queste che potrebbe fare altrettanto bene chiunque, anche senza una particolare preparazione professionale.
Questi operatori, o per carenza di una seria preparazione o perché considerano transitorio questo lavoro, in attesa di poterlo cambiare al più presto, non produrranno nulla di originale, a differenza di quanto è avvenuto in altri settori della riabilitazione.
Nel campo della riabilitazione delle cerebropatie infantili, Bobath è partito dall'analisi del comportamento del «bambino normale» e dall'osservazione delle varie fasi della sua evoluzione motoria, mettendo a punto tutta una serie di metodiche che tendono ad inibire l'anomalia comparsa o il perdurare oltre il periodo fisiologico di riflessi e comportamenti motori anomali, e a stimolare quelli normali che tardano a comparire.
Kabath, partendo dall'osservazione di individui (perfettamente sani) in movimento, si rese conto che una rieducazione motoria che avesse continuato a basarsi esclusivamente sulla ginnastica segmentaria, così come veniva fatto sino ad allora (e purtroppo continua ad essere fatta tuttora fra i tecnici improvvisati), era doppiamente restrittiva sia perché si basava su movimenti semplici che avvenivano esclusivamente intorno ad assi ortogonali fra di loro, sia perché provocavano una risposta motoria ed un coinvolgimento muscolare limitato. Partendo da queste osservazioni, egli mise a punto un suo metodo originale che si basa su movimenti compositi, diagonali e spirali che interessano contemporaneamente più segmenti corporei e la cui esecuzione, contro resistenza, mette in funzione risposte motorie quantitativamente e qualitativamente migliori: tecniche di facilitazione neuromuscolari.
Potremmo continuare per moltissime pagine ad elencare tecnici che hanno messo a punto loro metodi: Klapp, Nieder Hoffert ed altri per la ginnastica vertebrale correttiva; Vojta per le cerebropatie infantili ed altri che hanno messo a punto metodi di rieducazione muscolare che sfruttano i riflessi posturali, quelli tendinei, quelli noci-cettivi ecc.
Riabilitatori che hanno orientato la loro attività verso il trattamento delle varie categorie di motulesi, hanno adattato alle loro esigenze queste tecniche, arricchendole con contributi originali.
Fra questi creatori di scuole, senza dubbio il professor Milani Comparetti è uno fra i più geniali e fra i più seguiti; l'originalità e validità del suo metodo si basano su presupposti semplicissimi: «ogni buon riabilitatore deve essere padrone e non schiavo delle varie tecniche, che deve saper usare discrezionalmente al momento opportuno; egli deve nel modo più assoluto rifiutare la delega a gestire da solo un processo di riabilitazione finalizzato al reinserimento sociale del paziente e che deve veder coinvolti i parenti del paziente e tutto il suo entourage. In questa operazione il tecnico deve progressivamente delegare a questi ultimi la riabilitazione di routine, rimanendo sempre a loro disposizione per risolvere nuovi problemi che potrebbero presentarsi e per modificare, qualora fosse necessario, il programma di lavoro».
Come si è detto sopra, ogni categoria di utenti ha avuto uno o più fondatori di scuole che sono riusciti a produrre contributi originali e positivi, non solo per la categoria specifica, ma per tutta la riabilitazione in generale; a questa regola solo la geriatria ha fatto eccezione.
La messa a punto di un tale metodo di riabilitazione, che tenga conto particolarmente delle esigenze e delle caratteristiche dei soggetti anziani da trattare, è un capitolo della riabilitazione tutto da scrivere, e perché esso sia scientificamente valido deve tener conto di tutta una serie di elementi di cui qui di seguito ne elenchiamo soltanto alcuni:
- deve essere praticata da fisiatri e tecnici con una seria preparazione professionale di base, che, per libera scelta, decidano di esercitare nel settore degli anziani;
- la formazione nel settore specifico la si farà ricavando, con assoluta rigidità scientifica, dal lavoro di tutti i giorni gli elementi che differenziano il trattamento dell'anziano da quello tradizionale, elementi ed osservazioni che dovranno essere verificati durante i momenti di dibattito e di confronto all'interno dell'équipe interdisciplinare e durante gli stagesdi aggiornamento;
- nel mettere a punto i programmi di lavoro non si deve partire dall'osservazione del comportamento motorio del bambino o dell'uomo giovane ma prendere come modello di riferimento l'anziano «sano», magari indebolito dall'età; di conseguenza l'obiettivo da perseguire sarà quello del recupero più o meno completo della funzionalità tipica di questi soggetti;
- per le stesse ragioni si dovrà mirare a sopperire all'eventuale mancato raggiungimento dell'autosufficienza completa, adattando l'habitat ed i vari momenti della vita di relazione dell'anziano alle sue capacità funzionali residue, tenendo presente che esse sono, sì suscettibili di migliorare, ma più spesso sono inesorabilmente destinate a peggiorare; particolare cura deve essere dedicata alla predisposizione di strumenti didattici accessibili ai non tecnici, in quanto i buoni risultati della riabilitazione dipendono in gran parte dal fatto che l'intervento possa protrarsi nel tempo con una puntuale periodicità, il che sarà possibile solo se l'intervento di questi potrà integrare il lavoro dei riabilitatori;
- primo elemento per tale realizzazione è l'impegno dei riabilitatori ad adattare il loro comportamento (nel rapportarsi a questi pazienti) alle caratteristiche particolari delle loro patologie. Per fare alcuni esempi: l'arto fratturato dell'anziano andrà trattato con lo stesso scrupolo con il quale si rieducherebbe quello di un giovane, indipendentemente dal fatto che questi dovrà servirgli solo per reggere l'ombrello o il bastone o riprendere una attività produttiva. In luogo di escludere questi utenti dalla ginnastica vertebrale, si studieranno esercizi compatibili con le loro possibilità motorie residue.
Generalmente non si fanno eseguire a questi anziani tecniche di facilitazione neuromuscolari, adducendo la scusa che la loro esecuzione richiede un notevole grado di partecipazione. La realtà è un'altra, esse richiedono una notevole preparazione professionale che non tutti i riabilitatori posseggono. Non é infatti sufficiente saperla eseguire meccanicamente, è indispensabile esser capaci di provocare nel paziente una risposta. Si tratterà quindi di sforzarsi di ricercare questa collaborazione. Altrettanto dicasi per numerosissime altre affermazioni. È indispensabile predisporre per ognuna di esse un programma personalizzato che tenga conto delle condizioni del paziente e delle sue capacità di collaboratore.
- Infine va ricordato che la meticolosa classificazione dei vari gradi di non autosufficienza non reca alcun vantaggio pratico al recupero funzionale di questa categoria di pazienti e spesso viene usata come alibi da amministratori e burocrati per palleggiarsi il vecchietto di cui nessuno vuol farsi carico; sarebbe quindi più opportuno parlare non di classificazioni ma di rilevazione delle condizioni funzionali, tenendo presente che esse sono suscettibili di continue evoluzioni. Quindi non etichettatura di una condizione definitiva di invalidità irreversibile bensì documento tecnico per rilevare l'evoluzione del recupero e meglio programmare l'intervento riabilitativo stesso.
Da questa schematica introduzione dell'argomento, appare chiaro come l'intervento riabilitativo sia stato sinora sottoutilizzato e circoscritto quasi esclusivamente a quello ospedaliero, trascurando quasi completamente i trattamenti ambulatoriali e domiciliari.
Una riabilitazione diversa.
Questa diversa riabilitazione, per essere considerata tale, deve garantire l'interdisciplinarietà e la continuità del suo intervento. Non solo i riabilitatori ma anche gli altri operatori sanitari che seguono il paziente, dovranno contribuire alla formulazione ed alla buona riuscita del programma riabilitativo, con osservazioni ed indicazioni inerenti le loro discipline specifiche, così che questo programma sia finalizzato ad una risposta globale delle esigenze di recupero funzionale del paziente, viste da angolature diverse.
L'ideale sarebbe che la stessa équipe potesse seguire il paziente durante le varie fasi della sua malattia e riabilitazione: in ospedale, in strutture semiresidenziali o ambulatoriali e a domicilio. Ciò non è possibile da subito; però in attesa che una diversa organizzazione dei servizi sanitari consenta meccanismi di rotazione o di contemporaneo lavoro degli stessi operatori in più strutture, si deve assolutamente iniziare a far qualcosa che vada in quella direzione.
Una volta conclusa una fase di trattamento, l'équipe che l'ha eseguita, non dovrà scaricare il paziente come un pacco, dovrà seguirlo adeguatamente nelle fasi successive che possono essere: la dimissione per avviarlo ad un trattamento territoriale, o l'accettazione per avviarlo ad un trattamento residenziale ospedaliero. In questa prima fase, sarebbe già una bella cosa se l'équipe, nel trasferire il paziente ad altro servizio, lo seguisse nella fase iniziale mettendo a disposizione dei nuovi riabilitatori tutte le informazioni e le indicazioni inerenti il caso, di cui sono in possesso e possibilmente almeno un terapista collaborasse con loro nella messa a punto del nuovo programma di lavoro.
Per la messa a punto e l'attuazione di un buon programma riabilitativo, debbono essere curati in modo particolare alcuni suoi momenti:
- il primo contatto: l'approccio col paziente e col suo entourage;
- l'obiettiva valutazione delle condizioni funzionali residue e delle possibilità di recupero; - la messa a punto di un primo programma di lavoro, tenendo presente che comunque esso deve essere considerato dinamico, quindi suscettibile di continue modifiche;
- la disponibilità a collaborare in maniera concreta con quanti dovranno modificare l'habitat e le varie fasi della vita di relazione del paziente col mondo che lo circonda, adattandolo al suo residuo funzionale e tenendo presente che questo può essere suscettibile sia di miglioramento, ma più spesso di peggioramento;
- il lavoro didattico e di consulenza, per consentire (una volta impostato il programma riabilitativo e svolto un primo ciclo di trattamento intensivo) a tecnici generici e parenti di eseguire la riabilitazione di routine;
- in attesa che venga generalizzato l'utilizzo dell'operatore sanitario unico, che oltre a prendersi cura delle esigenze di tutti i giorni del paziente e ad eseguire la riabilitazione di routine e fungere da notaio dei suoi bisogni, sarà il fisioterapista a segnalare all'équipe ogni osservazione che consenta di adeguare il programma terapeutico e riabilitativo alle evoluzioni del quadro clinico del paziente. Nei trattamenti ambulatoriali e domiciliari questo ruolo verràassunto dal «curatore», cioè dal componente della famiglia che più degli altri si prenderà cura del paziente;
- la gravità del fenomeno patologico e la sua data di insorgenza;
- la precocità o meno dell'inizio della riabilitazione;
- le condizioni fisiche generali del paziente e la prognosi;
- il livello culturale ed il grado di collaborazione del paziente e dei suoi parenti.
Queste considerazioni valgono non per privilegiare i meno colpiti o con prognosi più favorevole, ma per perseverare nel trattamento degli altri che sono più svantaggiati.
La fase di approccio dell'équipe (e del terapista in particolare) col paziente e con i suoi parenti ed amici, dovrà essere curata attentamente perché spesso dipende da essa la qualità dei risultati. In questa delicata fase i riabilitatoridebbono tener ben presenti alcune regole: il loro rapporto con gli utenti (e loro parenti) deve essere molto equilibrato; non debbono schiacciare i loro interlocutori, imponendo il loro ruolo di tecnici, né farsi sopraffare dalle loro ansie; deve essere stabilito un rapporto di reciproca fiducia e rispetto che non sfoci in eccessiva familiarità, cosa questa che potrebbe compromettere i rapporti interpersonali ed i risultati stessi della riabilitazione; non dovranno essere lasciati intravedere irrealizzabili risultati.
Ma soprattutto i riabilitatori non dovranno accettare la delega a gestire da soli questo processo; come abbiamo detto sopra, essi dovranno mettere a disposizione di tutti coloro che circondano l'anziano ogni loro conoscenza facilmente trasmissibile e sforzarsi di far sì che questi riescano ad eseguire correttamente le manovre apprese, assicurando la loro consulenza ogni qualvolta questa venga richiesta e vigilando affinché questo diverso modo di lavorare non vada a discapito dei risultati, riprendendo direttamente in cura il paziente ogni qualvolta ciò dovesse essere necessario.
Un trattamento integrato
Per giustificare la discriminazione che viene fatta a danno degli anziani cronici e degli acuti con prognosi sfavorevole, si dice che la carenza di personale specializzato non consente di generalizzare l'intervento riabilitativo che deve pertanto essere limitato esclusivamente a coloro che presentano maggiori possibilità di recupero.
Molto vi sarebbe da dire su questo tipo di valutazione morale, ma ciò ci porterebbe a divagare; ogni paziente ha eguale diritto ad essere trattato: l'acuto perché ha maggiori possibilità di recupero, il cronico perché è stato sinora ingiustamente trascurato ma soprattutto perché è falsa l'affermazione secondo la quale non vi è in questi pazienti più nessuna possibilità di recupero. Non si può attendere che vengano adeguati gli organici dei riabilitatori (quasi ovunque inadeguati) per avviare questi processi di trasformazione; già da subito si può iniziare a fare qualcosa. I terapisti potrebbero iniziare a delegare agli operatori sanitari generici parte del loro lavoro di routine: far camminare i pazienti, eseguire semplici esercizi di ginnastica segmentaria, di terapia occupazionale ecc.; ed utilizzare il tempo così risparmiato nell'esecuzione di cicli di trattamento intensivo limitati nel tempo e nella programmazione e consulenza dei piani di lavoro che dovranno poi essere eseguiti dai tecnici generici o dai parenti, a seconda che il paziente sia ricoverato o rimanga a casa.
In sintesi: i terapisti dovranno continuare a vigilare sull'evoluzione del caso, modificando di volta in volta il programma e riprendendo il trattamento intensivo tutte le volte che ciò sia richiesto da obiettive esigenze terapeutiche. L'anziano reagisce in maniera spesso diversa dal giovane all'insorgere di fatti morbosi, cadendo spesso in stati di confusione mentale e debilitazione per fenomeni che nel giovane passerebbero inosservati o regredirebbero rapidamente. Questa osservazione ci deve indurre a dedicare la maggior cura possibile all'approccio col paziente ed alla messa a punto del programma riabilitativo che deve essere la sintesi delle osservazioni sul paziente fatte da tutti i componenti dell'équipe.
Si è detto che la perdita di autosufficienza nell'anziano è conseguente spesso ad un intervento riabilitativo tardivo o inadeguato o ad un intervento precoce che non si è però protratto nel tempo; ciò si verifica soprattutto nelle sequele di disturbi vascolari del sistema nervoso centrale, che sono fra le cause più frequenti di invalidità nell'età senile e presenile.
E' stato statisticamente dimostrato che qualora venga iniziata entro le quarantotto ore dall'insorgenza dell'ictus sia la terapia intensiva che il recupero funzionale, si ha una notevole riduzione sia della mortalità che dell'invalidità.
A sostegno di questa esigenza di intervento precocissimo da realizzarsi in una sezione di terapia intensiva multidisciplinare del dipartimento di emergenza ed accettazione, riportiamo qui di seguito tutta una serie di dati ricavati dalla rivista inglese «The Stock». Dal 1959, anno di avvio della riorganizzazione dei reparti per acuti con l'avvio del servizio di terapia riabilitativa precoce, al 1974, la mortalità dei ricoverati scende dal 57 al 22 per cento. Prima di tale data, solo il 28 per cento dei ricoverati ritornava a casa; in 15 anni questa percentuale è quasi triplicata, passando al 73 per cento dei ricoverati, mentre i trasferiti in cronicari sono stati il 5 per cento del totale: dati questi suscettibili di ulteriori miglioramenti.
Altro dato incoraggiante è rappresentato dal fatto che circa il 50 per cento dei pazienti trattati precocemente riesce a conseguire un'autosufficienza più o meno totale.
Il grado di autosufficienza di questo paziente deospedalizzato è però suscettibile, sia di migliorare, in presenza di condizioni favorevoli (habitat confortevole e strutture territoriali sociosanitarie), sia di peggioramenti qualora queste non sussistano.
Secondo la stessa fonte sono stati controllati, dopo 6-10 settimane dal loro ritorno a casa, circa 900 pazienti, e le osservazioni emerse sono le seguenti:
- rimangono a casa circa l'80 per cento delle persone che vivono in famiglia;
- la concreta presenza del medico, che si occupa dell'anziano invalido, consente la permanenza a casa dei dimessi, anche se la famiglia non può svolgere un effettivo ruolo assistenziale;
- le buone condizioni abitative consentono la permanenza a casa del 90 per cento dei dimessi;
- la presenza di strutture territoriali socio-sanitarie di sostegno, la collaborazione di familiari e la disponibilità del medico a seguire concretamente l'anziano, riducono di un ulteriore 10-20 per cento l'esigenza di protrarre la degenza ospedaliera;
- l'estrema povertà è causa di ritorno in ospedale nel 95 per cento dei casi; tale percentuale diminuisce del 5 per cento se vi è un servizio di assistenza domiciliare e di un'ulteriore 3 per cento ove esista un ospedale diurno.
Grande importanza va attribuita al trattamento precocissimo di questo tipo di pazienti, perché da ciò dipende il loro destino riabilitativo: la possibilità di recuperare una più o meno completa autosufficienza e quindi di rientrare nel loro ambito familiare e sociale o al contrario di divenire cronico ed essere confinato in strutture emarginanti. L'attuale confusione ideologica (o malafede) in materia di riabilitazione, fa sì che, in alternativa ad un intervento inadeguato, si proponga una riorganizzazione tecnicistica dei reparti per acuti e cronici: suddividendoli in settori attraverso i quali far ruotare i pazienti, a seconda della evoluzione delle loro condizioni e del tipo di richiesta dell'intervento, quasi una catena di montaggio della riabilitazione.
Tutto ciò sarebbe psicologicamente e materialmente nocivo per l'anziano che vedrebbe accresciuta la sua confusione mentale, dovendosi ambientare continuamente a nuove situazioni, e di nessuna utilità ai fini del recupero funzionale. Molto meglio sarebbe anche in questi casi l'utilizzo di un'unica struttura muraria e l'adozione della prassi del «progressive patient cure».
Se invece concordiamo nel fatto che l'invalido debba mirare ad un recupero funzionale che gli consenta, magari con un adeguato adattamento del suo habitat, di raggiungere un'autosufficienza tale da consentirgli di curare il suo corpo, abitare la sua camera e la sua casa (possibilmente il suo quartiere e la sua città), e ad accedere a tutte le occasioni di socializzazione; in questo caso bisognerà rivedere tutto: il concetto di riabilitazione, la formazione e l'aggiornamento degli operatori, il loro ruolo, la definizione delle sedi e delle modalità di intervento più idonee; quasi una rifondazione del concetto di riabilitazione geriatrica.
L'intervento riabilitativo residenziale ha ragione di essere esclusivamente finché lo imporranno ragioni di obiettività terapeutica, e dovrà divenire semiresidenziale, ambulatoriale o domiciliare non appena queste lo consentiranno. Parallelamente alla revisione degli obiettivi da raggiungere, bisognerà riorganizzare il lavoro dei servizi di riabilitazione: non è ulteriormente accettabile che ogni paziente venga trattato per non più di mezz'ora giornaliera cinque volte la settimana e spesso anche meno a causa di una indisposizione sua o del terapista o del portantino o per incompatibilità fra i tempi di lavoro di questo servizio con quelli del reparto di degenza.
Se riusciremo a coinvolgere in questo lavoro anche operatori generici e parenti dei pazienti, lasceremo più spazio ai terapisti per occuparsi di un lavoro di messa a punto e verifica di più vasti programmi riabilitativi.
Dopo di ciò, dovrebbero essere progressivamente sostituiti gli attuali esercizi in palestra, spesso non finalizzati e poco gratificanti, con un programma più rispondente a questa logica e che prepari veramente il paziente alla fase riabilitativa successiva, quella dell'inserimento sociale.
In questa diversa ottica il terapista potrebbe curarsi di un ristrettissimo numero di pazienti. Partendo dalle loro condizioni generali e dal loro residuo funzionale, egli predisporrà un piano di lavoro che occupi i pazienti per l'intera giornata, durante la quale si alterneranno momenti di sperimentazione di nuovi esercizi e di nuovi sussidi riabilitativi a momenti di esecuzione del programma vero e proprio (esercizi chinesiterapici e terapia occupazionale).
Un buon riabilitatore dovrà saper attingere a piene mani dalle tecniche già sperimentate, adattandole alle particolari esigenze dei suoi pazienti. Bobath potrà ispirare esercizi in posizione quadrupedica, intermedia, in ginocchio, il teeping, la stimolazione dei riflessi di equilibrio, e tutta una serie di altre metodiche generalmente utilizzate per il trattamento delle cerebropatie infantili.
Conclusioni.
Nonostante i limiti di un'analisi così sommaria, riteniamo sin d'ora di poter anticipare delle considerazioni, rimandando l'approfondimento dei vari aspetti della riabilitazione in geriatria al dibattito che ci auguriamo di aver contribuito a provocare:
- la riabilitazione dell'anziano non deve essere l'ottusa applicazione di tecniche generiche a questo tipo di paziente; partendo dall'anziano, dai suoi limiti e dalle sue possibilità deve essere messo a punto un programma riabilitativo più originale;
- sarebbe limitativo circoscrivere questo intervento alle sole manovre chinesiterapiche; essa deve comprendere anche l'adeguamento dell'habitat alle possibilità funzionali dell'anziano e la rimozione delle barriere psicologiche e culturali che lo circondano;
- il recupero funzionale è un intervento interdisciplinare che non deve essere eseguito esclusivamente da riabilitatori, ma deve veder coinvolti anche tecnici generici, parenti ed amici del paziente, opportunamente addestrati e seguiti;
- l'intervento residenziale ospedaliero e l'utilizzo dei tradizionali servizi di recupero funzionale debbono essere circoscritti ad esigenze di obiettività riabilitativa; in tutti gli altri casi, va privilegiato l'intervento territoriale adeguatamente organizzato;
- la programmazione di strutture residenziali per non autosufficienti, così come è stata propasta da alcune Regioni, va respinta in quanto è funzionale alla vecchia logica, secondo la quale vengono riabilitati esclusivamente pazienti in fase acuta o comunque tutti coloro per cui si prevede una prognosi favorevole o un regresso spontaneo del fenomeno invalidante, abbandonando tutti gli altri al destino di «cronici»;
- una diversa riabilitazione ridurrebbe notevolmente la percentuale di non autosufficienti prevista da molte Regioni, circoscrivendola a pazienti obiettivamente bisognosi di ricovero ospedaliero o da dislocarsi in numero di uno o due per gruppo in comunità alloggio per autosufficienti, purché adeguatamente assistiti dal medico di base e dalle strutture specialistiche dei servizi territoriali.
GIACOMO BRUGNONE
FONTE:http://www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/053/53_il_recupero_funzionale_dell%27anziano.htm